venerdì 27 marzo 2020

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Alla fine del corridoio di gomma blu si legge anche a distanza l'insegna luminosa e violetta BAR.
Sembra di fare un viaggio nel tempo finendo dritti negli anni 50' la macchina del caffè rosso mattone e acciaio, i bicchieri di vetro opaco stretti lunghi e zigrinati le pareti gialle, i tavolini di plastica e una vaga atmosfera di dismissione che pesa sulla testa, come un cappello di metallo, ognuno ha il suo personale cilindro.
Il sapore del caffè amaro precipita in gola a piccoli sorsi, nello stomaco vuoto che si contrae in singhiozzi di
gastrite, nausea che da leggermente alla testa.
<Tutto bene?>
Il barista brizzolato con il gilè di mussola mi fissa da un po' a quanto pare...
<Cosa? Dice a me?>
<Si dico a lei...anche perché c'è solo lei...Le ho chiesto se si sente bene>?
<Ah...si certo, mi sento bene, mi sono solo...distratta, credo, grazie>
<Di niente, però se posso permettermi, non ha un bel colorito!>
<Dice? Forse sono solo un po' stanca, ho fatto il turno di notte...>
<Certo, capisco> mi guarda e accenna un sorriso. Mi rimane la sensazione che no, non abbia capito affatto.
Esco dal bar lisciandomi la gonna con i palmi delle mani, affronto di nuovo il corridoio e poi le scale. Nonostante il tempo trascorso a percorrere e ripercorrere sempre lo stesso tragitto, rischio di perdermi ogni volta stordita dal' odore dolciastro dei disinfettanti. Non mi sono abituata, non mi sarei mai abituata.
All'inizio pensavo che non avrei sopportato il dolore, il mio e quello degli altri, mi ero immaginata un luogo denso di sofferenza, pieno di persone devastate e piene di rabbia, invece silenzio. Il silenzio mi aveva preso a schiaffi in faccia fin dal primo giorno, un silenzio bisbigliato sciolto in giornate scandite da un tempo diverso, fatto di visite di controllo, giro letti, cambi di flebo, cateteri e pannoloni, pasti a base di semolino, purè di patate, verdure e minestrine, in sottofondo programmi televisivi che riecheggiando da una stanza all'altra, riempiono le lunghe pause del sonno pomeridiano.
In questa dimensione autonoma, assolutamente indipendente da quello che accade fuori, il tempo si comporta in modo strano, dilatandosi in modo incredibile dando la sensazione che sia sempre mattina, o correndo in modo che all'improvviso si faccia l’ora di cena. Il tempo delle visite si frappone rumorosamente in questa routine sempre uguale. Camminando per i corridoi, passando davanti alle stanze, quasi tutte con le porte aperte a metà, mi rendo conto che della gran parte di quei “pazienti” conosco bene solo le gambe e i piedi, che spuntavano alla vista.
 Faccio fatica a mettere bene a fuoco le loro facce, quello che mi riesce meglio è collegare i volti dei visitatori ai numeri delle stanze, la madre grassa della 31, il figlio con gli occhiali a fondo di bottiglia e la forfora sulla giacca della 43, la moglie con la faccia e l'andatura da coniglio della 45 che viene i giorni pari e l'amante con i capelli ossigenati e la ricrescita scura che viene nei giorni dispari.
Io invece, sono la sorella che non ha mai saltato neanche un giorno di visita della stanza 26.


domenica 22 marzo 2020

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<Che leggi>?
<Un libro>!
<Pensavo fosse il libretto di istruzioni su cosa fare in caso di incendio! Avete l’estintore vero>?
Sono le due del mattino, questo tizio alto con una cresta scomposta di capelli scuri viene una volta a settimana sempre ad orari assurdi trascinandosi dietro una busta di cerata blu e gialla piena di grembiuli.
 <Spettri di Ibsen>
<Cos'è un horror?>
<Non esattamente>…
 Gli occhi stralunati e stanchi, ha appena finito di caricare due lavatrici senza entrare nel panico e senza impallare il distributore del detersivo. Ora si lascia cadere su una sedia, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e puntellando il mento ai palmi delle mani si mette a fissare il vortice di acqua e sapone.
Innocuo nonostante le battute e i sorrisi-saluto. Più per dovere che per un gesto realmente spontaneo ho ricambiato con un dondolio della testa, impegnata tra la lettura del libro e gli spaghetti di soia piccanti che sgusciano via dalle bacchette facendomi venire voglia di forchette di plastica.
<Dici che lo trovo su Amazon?>?
<penso di si, ma non credo sia il tuo genere sai>?
<Ah e quale sarebbe il mio genere secondo te?>
<Ma non lo so...Baricco?>
<Ah Ah! come hai fatto ad indovinare?>
<Intuito>
<Com'è che ti chiami?>
<Nora...>
<Paolo, io sono Paolo>
Si alza e mi viene dritto incontro con la mano tesa, appoggio il libro e gli tendo una mano appiccicosa di salsa di soia.
<Piacere>! Bofonchio priva di entusiasmo.
<Piacere mio. Scusa ti sembrerò un matto che di notte importuna le persone nei posti più assurdi, è che sono ufficialmente entrato nel mio giorno di riposo, capisci che la gioia è difficile da contenere!>
Sorride, sorrido anche io, per stanchezza e per contaminazione
<Ah...>
<Faccio il cuoco...Domani siamo chiusi...e io lavo i grembiuli>
<Carino!>
<Carino cosa?>
<Che lavi i grembiuli...hai fame?>
<Mi prendi per il culo ho cucinato tutta la sera non ne posso più...>
Si lascia andare a una risata buffa, baritonale
<Scusa era così...tanto per dire>
Rido anche io, ormi arresa alla circostanza.
<No scusa tu...sono stanco e puzzo di fritto, che mangi?>
<Spaghetti di soia...li prendo dal cinese all'angolo, mi fanno lo sconto vengono a lavare le tovaglie, e io non gli faccio pagare l'asciugatura>.
<Ma lavori sempre di notte?>
<No non sempre, spesso...mi piace>
<E di giorno cosa fai?>
<L' asciugatrice ha finito!>
<Cosa?>
<I grembiuli...sono pronti>
<Ah...si ora vado>
<Allora ci vediamo...!>
<Si ci vediamo...buona notte>
<Buona lettura>
<Grazie>
<Vado>
<O.k.>
<Sto andando...>
<Vai!>
<Vado...ciao>

giovedì 19 marzo 2020


....Ti sei sposato in un venerdì di giugno nella chiesa verde e grigia del quartiere dove hai imparato ad usare la moto e a girare gli spinelli. Era mattina, faceva caldo, c’erano tutti, parenti, amici, conoscenti. Io ovviamente non ero stato invitato. Anche volendo come avresti potuto?! ero svanito mesi e mesi prima senza lasciare traccia. Ti ho spiato da lontano attento a non farmi sorprendere. Una parte di me era convinta che alla fine non lo avresti fatto, che  ci avresti ripensato e invece sei uscito dalla chiesa con quella ragazza sotto braccio, i capelli lunghi domati dal gel e stretti in un codino, il vestito gessato, l’espressione felice almeno da lontano, mentre le stringi la vita proteggendola con il braccio dalla cascata di riso che la folla esagitata e rumorosa vi lancia contro.  Immagino che al posto del riso ci siano minuscole lance appuntite che dopo essersi conficcate nella carne esplodono come mine. Il vestito bianco a forma di meringa della sposa si tinge di rosso vermiglio, sorrido mentre la vedo cadere a terra, lo sguardo fisso, spaurito, sorpreso. Vedo cadere anche te, mi muori davanti agli occhi in modo maldestro e non provo nessun dolore solo pace. Finalmente respiro.


mercoledì 18 marzo 2020


...Il corridoio di gomma, tutto in questo posto, il pavimento, le pareti le maniglie delle porte è di gomma azzurra, come l'interno di una nave. Si, sembra di camminare in una nave da crociera a basso costo, forse un traghetto, più che una nave, di quelli pieni di famiglie con i panini avvolti nella carta stagnola che una volta scartati liberano un forte odore di frittata alle cipolle, producendo un immediato e invidioso aumento della salivazione della gente intorno, tristemente avvinghiata a piadine di plastica comprate sul posto, pagate come un chilo di filetto e con un vago retrogusto di Malox.
Tutti ugualmente tormentati dalla scomodità delle poltroncine ruvide e dal gelo dell'aria condizionata.
Le strategie di sopravvivenza dei passeggeri, non importa se di mare, di terra o di aria meriterebbero una narrativa propria, un decalogo scrupoloso sulle capacità di adattamento delle persone durante un viaggio, uno spostamento dal punto A al punto B desiderando in ultimo di raggiungere il luogo C.
 C'è chi si muove solo in gruppo, in modo da impiegare il tempo nella cura o nel disturbo del proprio gregge, familiare o amicale che sia a seconda delle attitudini personali di ognuno.  Al contrario c'è chi si muove preferibilmente in solitaria o al massimo in nuclei da due, questa tipologia trasversale a sesso ed età, è facilmente riconoscibile, i passeggeri in solitaria tendono a sostare in porzioni di spazio relativo, spesso marginali come se lo stare da soli diminuisse in automatico la capacità e l'autorizzazione non scritta di occupare lo scompartimento di un treno o il ponte di una nave. Io mi sento così in questo posto dalle luci azzurrine, una passeggera di quelle che viaggiano da sole anche se accompagnate, di quelle che finiscono inevitabilmente a fare la fila all'ufficio oggetti smarriti.
Ci sono giorni in cui lo smarrimento mi sembra essere una costante, fisso lo specchio e mi perdo nella curva violacea delle occhiaie, mi sembra di aver cambiato forma, non interamente solo di alcune parti, non riconosco più la sagoma della schiena o la conformazione del cranio, il colore degli occhi a volte. Per alcune frazioni di secondo non riconosco più la mia faccia, la tocco e mi sembra di toccare quella di qualcun altro. Presa da un dolciastro senso di panico faccio correre i polpastrelli sugli zigomi pronunciati, delineo con la punta delle dita la linea scura della bocca risalgo frettolosamente sul naso un po' schiacciato fino alle setole delle sopracciglia e finalmente trovo conforto e tregua imbattendomi nella cicatrice allungata sulla tempia sinistra.
Quella striscia obliqua, liscia e lucida che non si abbronza mai e che fa tornare il respiro ad essere regolare convincendomi che quella riflessa sono io, questa sotto le mie dita è proprio la mia faccia e che quel non riconoscermi evidentemente è stato un difetto dello specchio.
Questo, non mi mette esattamente paura o angoscia è più una sensazione diffusa di malessere, un gomitolo di ansia morbida tra il bagno e la cucina, che mi accompagna nei gesti più banali e ripetitivi come lavarmi, vestirmi, preparare meticolosamente la macchinetta del caffè, facendo attenzione che la piccola piramide di polvere scura sia ben centrata e lontana dai bordi.
Non mi sento esattamente estranea, resto familiare a me stessa anche se non completamente coincidente. Un’ospite goffa, un’occupante abusiva di un corpo, di un tempo e di uno spazio...


martedì 17 marzo 2020



.....Mi piace il turno di notte. All'inizio sembrava che mettere una donna come sorvegliante notturna di una lavanderia a gettoni fosse cosa poco sicura. Ho insistito tanto che alla fine mi hanno fatta provare e ora ne faccio almeno tre a settimana.
Lo preferisco, si adatta perfettamente alla mia pelle come un abito su misura, c’è più tempo per il silenzio e meno per l’isteria del ritardo. Di notte nessuno fa caso a me, le persone sono più stanche e meno ostili, mi ignorano per lo più, mi considerano parte del brutto arredamento di plastica e mi lasciano in pace.
Mi è capitato per caso di finire qui, sei giorni su sette, mi sono progressivamente abituata, sfruttando la mia capacità di adattamento mi sono plasmata velocemente in modo passivo al ritmo e alla routine di giornate talmente simili tra loro da confonderle. Immaginare le vite degli altri mi serve per non impazzire.


Faccio scorrere l’acqua nella doccia, finché il vapore non appanna il vetro dello specchio appeso sbilenco sopra il lavandino del bagno. Aspetto nudo seduto sul cesso, mi alzo ed entro nella vasca. Il getto mi punge la pelle. Tengo il collo inclinato verso lo sterno ossuto, espongo il collo alla violenza calda dell’acqua. Respiro lentamente l’apnea. Ho le ossa molli e tenere, mi abbandono incurante di me stesso alla luminosa dimensione dell’estasi. L’eroina si dipana, sono liquido. Pieno e vuoto allo stesso tempo, ho tracciato fino ad un attimo prima corpi che ricordano i marciapiedi su grandi tele ruvide a basso costo, granulose e scadenti. Ho dipinto con le dita, con la lingua, sono stato colore e tratto delle mie paranoie, dei miei desideri mancanti. Ho creato un incubo visionario, ne sono stato il protagonista e l’esecutore. Ora lavo via il buio dalla mia pelle, la mia pittura privata è l’ossessione splendida che non vedrà mai luce, rimarrà chiusa tra le quattro mura di un brutto appartamento di periferia. E’ la mia cura, la mia chiesa sconsacrata e blasfema la sola strada che conosco per potermi amare quel tanto necessario da non smettere di respirare. Se dipingo riesco a non pensare a quanto mi senta isolato, mutilato, privato della possibilità di amarti da vicino. Condannato a disegnarti attingendo sempre dallo stesso ricordo, doloroso e dolcissimo nel quale sono intrappolato......

lunedì 16 marzo 2020

                                                                 PRIMA PARTE

                                                         INSPIRA... E.... TRATTIENI





Sabato pomeriggio, piove da un po'. Una pioggia malata e gialla che si porta dietro nuvole di vapore, caldo scirocco fuori stagione, l'odore acre delle polveri sottili, della spazzatura bagnata.
I resti del mercato, macerie di cassette e ortaggi ammucchiati in prossimità dei cassonetti strapieni. Un’umanità frastagliata e sudata brulica ai margini delle stradine ombreggiate da alberelli asfittici.
Gli oblò delle lavatrici a gettoni ruotano ipnotiche e instancabili, un gran via vai eterogeneo di gente con bustoni di panni da lavare e da asciugare si agita rumorosamente.
Me ne resto in disparte mi faccio piccola appiattendomi contro il muro in una zona di penombra.
L'aria calda, l'umidità e il rumore del traffico sono insopportabili, rivoli di sudore tra le scapole, i vestiti si appiccicano fradici alla schiena, una bolla di calore ci opprime schiacciandoci contro il suolo, tutti così pigiati come grossi rospi in una palude tropicale.  Mentre mi confondo tra gli altri supervisiono distrattamente il flusso del Lava e Asciuga, pronta ad intervenire solo se strettamente necessario, quando mi accorgo che qualcuno fissa imbambolato le macchine come fossero ordigni nucleari pronti ad esplodere, congestionando la fila inferocita e sbuffante che generalmente maledice la pioggia, il costo del detersivo, il governo, gli scioperi dei mezzi pubblici e le reciproche appartenenze di fede calcistica o religiosa; allora mi alzo, mi intrometto discretamente e guido con pazienza estenuante il pensionato di turno o lo studente rincoglionito alla scoperta dei misteri delle lavanderie “fai da te”.
La monotonia rituale di gesti meccanici e sempre uguali mi rassicura mi fa sentire capace, mi anestetizza e non mi fa pensare. Distratta dai vestiti degli altri, subisco passiva il fascino che su di me esercitano lenzuola a quadretti, completi di stoffa variopinta e leggera, improvvisamente mi trovo persa in bottoni di madreperla e federe sgualcite.
Da una busta di vestiti sporchi posso capire molte cose di una persona, posso abbozzarne la quotidianità, immaginando il tipo di lavoro o quello che fanno nel tempo libero, mi ritrovo così a fare congetture su palestre e piscine, li colloco in base alle divise nei supermercati o in qualche centro commerciale. Li faccio conoscere tra di loro, li faccio litigare, invento storielle banali per passare il tempo, li faccio giocare nella mia testa, li odio, mi affeziono, li cancello e poi li ricreo di nuovo........

domenica 15 marzo 2020

                                                      PALOMA NEGRA


Seduto a gambe incrociate in un angolo faccio vagare lo sguardo nella stanza al buio ne accarezzo i confini e ne immagino l'effetto di giorno con la luce verdastra del sole annaspo nello sperma delle mie percezioni alterate e una  malinconica voglia di fuga si insinua nelle braccia abbandonate mi lascio inghiottire dalla trama incerta della notte famelica lasciandomi masticare da luci stroboscopiche corpi sudati e tesi dal movimento fluido e stupefacente della tossicodipendenza che cola negli interstizi del corpo.

Entro nel bagno del locale scivolando come un’ombra. Ho la vista leggermente appannata, le gambe cedono sotto il peso dell’alcool, lui mi segue eccitato, felice, idiota come un cane. Ci mette un attimo mi infila le mani sotto il vestito mentre si slaccia i pantaloni mugolando oscenità che il mio udito non registra


Mi analizzo da fuori e mi vedo camminare malfermo e malvisto uno scheletro di carne inutile potente e mancante incapace di musica insoluto struggente nella sua povertà e il tempo della resilienza è quel ragazzo di cui non ricordo il nome né l'odore che dorme a pochi metri da me sul materasso basso nella camera sgualcita dal sesso appena trascorso e dalla paloma negra la droga dell'attimo fermo e ripetuto infinite volte fino a raggiungere la dimensione del suono e del pianto.
Mi riconosco solo tra le sue fauci magre sogni irrisolti in un corpo irrisolto che non è il mio è dell'altra la sorella di pietra incapace di amare senza di me lei non ama e non si fa amare io amo al punto da morirci dentro un po' ogni volta ad ogni rabbiosa carezza tra sconosciuti io sbiadisco e mi perdo un pezzetto di senso.

È basso, tarchiato con il gel nei capelli e un pene corto largo e peloso che non mi fa né caldo né freddo. Il poveretto si agita, sbuffa grugnisce e dopo poche spinte senza respiro finalmente mi viene tra le cosce.
Fa caldo, un caldo insopportabile ed appiccicoso, mi tiro su le mutande, sistemo il vestito esco dal gabinetto, lui sempre dietro mi mette una mano tozza sulla spalla nuda trasalisco mi giro di scatto e gli dico di andare a farsi fottere dal buttafuori negro all’ingresso.

La mappa degli organi si sbriciola sotto le mani inesperte degli altri che mi attraversano e mi rendono infelice con la loro necessità inferma di amore livido squallido veloce mentre io sogno il guscio protetto della tenerezza la radura incompleta della scoperta per essere sconfitto ogni volta in questa ricerca ipocrita da uomini e donne più disperati e soli di me il nostro è l'amore triste degli illusi e dei superficiali abbiamo tutti paura di essere all'ultimo stadio della perdita.

Mi guarda sorpreso come se non se lo aspettasse, gli occhi bovini mi fissano perplessi e vacui, me lo scrollo di dosso con un gesto della mano. Esce dal bagno lasciandosi alle spalle una scia di insulti, chiudo gli occhi le tempie pulsano, ho un ronzio costante nelle orecchie vorrei vomitare ma non ci riesco. Recupero la giacca e mi spingo fuori per strada, respiro la notte umida, bagnata e densa.

Eppure voliamo sulle città come angeli trasparenti incuranti e scaltri precipitiamo giù Icari di cera nelle vite degli altri mandandole in frantumi fracassando cuori annodando arterie ogni pezzo di vetro un respiro una scheggia una lingua un luogo un desiderio un errore.